La gita alle hot springs, le fonti calde che si trovano dall’altra parte del parco, a 30 km di pista sterrata dal lodge, inizia con ritardo: la sveglia non suona, ci svegliamo tutti tardi e partiamo una mezz’ora dopo il previsto. I guardia parco ci iniziano a guardare con aria di sufficienza, che si trasforma in rassegnazione quando a metà del viaggio, da buoni italiani, ci fermiamo in mezzo alla savana per prepararci un caffè (in polvere, freddo, ma quanto era buono!).
I nostri ranger sono armati, perché all’interno del parco convivono, non troppo pacificamente, gli Afar e i Karayu, due tribù che vivono di pastorizia e si contendono a colpi di fucile gli scarsi pascoli per il bestiame. Ne incontriamo parecchi che pascolano la loro piccola mandria con il fucile sulle spalle.
Durante il tragitto riusciamo a vedere un po’ di animali, a quanto pare ritardatari come noi: cammelli, facoceri, tartarughe giganti, dick dick,babbuini, tante specie di uccelli di cui non so proprio ricordare il nome.
Arrivare alle hot springs è come raggiungere un oasi nel deserto: in mezzo alla savana si cominciano a vedere una vegetazione verde e lussureggiante e le palme che circondano le fonti, che sono specchi d’acqua color turchese che invitano a fare un bagno. Solo che l’acqua è molto più calda dei 36° di cui parla la Lonely Planet e così rinunciamo.
Alle 9.30 siamo già sulla via del ritorno e decidiamo di fermarci a fare la colazione (grazie alla super organizzazione della nostra amica che è partita da Addis con una borsa frigo ripiena di ogni bendiddio!) sotto una tettoia vicino alla casa dei guardia parco, unica traccia di umanità per chilometri. Uno dei nostri ranger si offre di portarci qualcosa di fresco da bere, perché fa già molto caldo: ritorna con alcune bottiglie di coca cola e a me viene subito da pensare all’immenso potere di questo brand, che arriva anche qui, in mezzo al nulla della savana.