Ferengi in Bruxelles

dall'Etiopia a Bruxelles senza passare dal via


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La casa in movimento

Quando è arrivato il nostro container ho cominciato davvero a capire cosa significa essere in Africa.

Certo, se l’è presa comoda, ha fatto circa un mese e mezzo di vacanza nel porto di Gibuti, poi si è riposato qualche giorno dalle fatiche del viaggio alla dogana di Addis Ababa.

Poi ha anche sostato per circa un’oretta all’imbocco della via dove si trova la nostra casa perché non si trovava chi potesse aprire la sbarra che impedisce il passaggio ai mezzi troppo alti. Alla fine la sbarra è stata sollevata e per evitare problemi ai fili elettrici che passano sopra la strada, uno dei ragazzi della ditta di traslochi è salito sul container (in movimento, of course) per controllare che tutto fosse a posto… San Martino da Tours, il santo protettore dei traslochi, ha fatto sì che l’intera operazione sia andata a buon fine!

P.S.: Grazie a Mauro e ai suoi colleghi di Speedy Moving per l’ottimo lavoro di imballaggio e la pazienza che hanno avuto con me in Italia e ad Aimero di E.T. Fetan Transit per aver fatto, con gran professionalità, tutto ciò che era umanamente immaginabile per far arrivare il più in fretta possibile il nostro container.


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Che tempo che fa

Mentre l’Italia si sta sciogliendo dal caldo, a sentire le catastrofiche notizie provenienti dai siti web del bel paese e le lamentele di amici e parenti, qui ad Addis Ababa siamo entrati nel pieno del kiremt, la stagione delle piogge. Il che significa che in media piove almeno due volte al giorno: qualche giorno piove tre volte, altri solo una, ma mai di meno. Ogni tanto per qualche oretta esce un sole caldo e pieno che ti si apre il cuore a vederlo, come certi bei giorni di primavera inoltrata, ma è un’illusione di breve durata. Infatti dopo grandina.
E poi fa davvero freddino, che la maglia di lana non ti fa nemmeno dispiacere…
A chi piacciono i numeri, ecco cosa dice in un modo più prosaico la National Meteorological Agency dell’Etiopia sul tempo nella capitale


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Ubuntu!

Durante l’intervallo delle partite del mondiale appena terminato, vedevo sempre una pubblicità-progresso a favore dell’integrazione, dell’amicizia tra i popoli e della solidarietà. Intervallate ad immagini di fair play tra giocatori di calcio, scorrevano parole come friendship, tollerance e… ubuntu. Non sapevo che cosa significasse fino a qualche giorno fa, quando l’ho scoperto per caso qui. La filosofia che sta dietro a questa parola mi è piaciuta molto, così la condivido con voi.


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Squarti di bue

Gli etiopi adorano mangiare carne, tanto che un loro prelibato piatto nazionale è composto da carne cruda tritata, tagliata dall’animale appena macellato a garanzia di freschezza.

Le macellerie ad Addis Ababa per me, che pur non sono vegetariana, sono state abbastanza uno shock. Mi spiego meglio: in Italia ero abituata a comprare la carne in asettici vassoietti al supermercato o tutt’al più a pezzi, più o meno grandi, dal macellaio, che li conserva in un pulito banco frigo.

Qui le macellerie che si vedono per strada sono poco più che baracche, con all’interno una rastrelleriera in legno, se va bene verniciata di bianco, se va male tutta scrostata e con il legno vivo a contatto con la carne, con appesa una carcassa di animale intera aperta in due. E magari fuori dal negozio una mucca che bruca l’erba a bordo strada ignara del suo destino…

P.S.: per tranquillizzare gli amici che ora sono preoccupati per il nostro intestino: noi la carne la compriamo al supermercato ferengi in asettiche vaschettine incellofanate, dove non so e non voglio nemmeno sapere quanto la paghiamo in più!


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Colori e sapori

Arrivata ad Addis Ababa, ho l’impressione di dover imparare di nuovo a fare molte cose che in Italia mi parevano del tutto scontate, dal guidare al fare la spesa. Una cosa che ho imparato subito però è che le esposizioni dei fruttivendoli, oltre ad essere una gioia per la vista, sono anche una delizia per il palato.

La frutta e la verdura, fresche e saporite, si trovano a prezzi che per noi ferengi all’inizio appaiono quasi un regalo: un kilo di carote 8 birr (1 birr=6 centesimi di euro circa), così come i pomodori, un kilo di banane 6 birr (ma il mio driver una volta mi ha detto che se vado al mercato ortofrutticolo alle 5 del mattino, quando anche i negozianti vanno a rifornirsi, posso risparmiare ben tre birr al kilo!)

I fruttivendoli poi sono uno spettacolo per la vista: espongono direttamente sulla strada piramidi di colorata frutta e verdura: arance gialle vicino a papaye verdi, cipolle rosse a fianco di cavoli bianchi, zucchine, pomodori, fagiolini, cespi di lattuga, angurie, banane, ananas, mango, fragole… e tutta una serie di altre cose a cui non sono riuscita ancora a dare un nome!


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Parking expertise

Ieri siamo andati al Friendship building (in attesa di una foto mia, eccone una tanto per darvi un’idea), un grande palazzo con molti negozi all’interno (una specie di centro commerciale, in inglese si chiama mall). Fuori, le macchine erano parcheggiate a lisca di pesce, in doppia fila, ma noi per puro caso abbiamo trovato un posto regolare, in prima fila per capirci.

Quando siamo tornati dal nostro giro, una macchina si era messa dietro di noi. Mentre ci stavamo chiedendo come fare per uscire, si è avvicinato il parcheggiatore che ci ha chiesto, quasi fosse una domanda retorica fatta a dei ferengi, “telephone?”. Mentre mio marito, piuttosto allibito per la strana richiesta (di solito ti aspetti che ti chiedano qualche birr per pagare la sosta), faceva sì con la testa, il parcheggiatore gli porgeva un foglietto con un numero di telefono e gli diceva “Call!”, chiama! Insomma, si era organizzato in modo da avere i numeri di telefono delle persone parcheggiate in seconda fila, in modo da non bloccare il turnover e non tediare i clienti con inutili attese!


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I gatti di Addis

Vorrei rassicurare tutti gli amici amanti degli animali: qui i gatti non li mangiano.
Ce ne sono pochi in giro, alcuni abbastanza malconci, altri solo magri come la fame, però ci sono.
Ce n’è uno che ogni mattina lo trovo a dormire sopra il tetto del service quarter. Rosso, abbastanza in carne per la latitudine, avrei quasi quasi voglia di provare ad adescarlo con un po’ di latte e qualche bocconcino di carne per vedere se riesco ad addomesticarlo e a farmi tenere lontano qualche eventuale topolino. Non so se può essere un buon acquisto, però, perché l’altro giorno lui sonnecchiava godendosi il sole mattutino e a tre metri da lui c’era una bella colomba bianca, un’ottima e abbondante colazione, ma lui non l’ha degnata nemmeno di uno sguardo!

P.S.: di gatti abissini, qui , nemmeno l’ombra…


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Oggi si mangia injera

Oggi la nostra mamita (la ragazza che ci aiuta in casa, qui si chiama così) ha cucinato etiope: ecco il risultato, un’injera che era una sinfonia di profumi, colori e sapori.

L’injera è il piatto tipico etiope e scrivo piatto non a caso: infatti viene usata come base d’appoggio per varie pietanze a base di carne, verdura e spezie. Da sola, ha un po’ l’aspetto dei panni caldi e arrotolati che ti danno in aereo… e il gusto non è un granché, acidulo e di carattere. Ma è davvero ciò che di meglio si possa volere per accompagnare ed esaltare il profumato e saporito cibo etiope.

La nostra mamita ha messo sopra l’injera della carne tritata passata in padella nel burro e condita con spezie, del mais cucinato con cipolla e aglio e delle “red potatoes”, le patate con le rape che danno loro un bel colore rosso (coreografiche e buonissime!).


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Blue donkey

Qui ad Addis Ababa esistono due tipi di donkey: gli asinelli in carne e pelliccia, che di solito trasportano carichi dal peso e dalla dimensione improbabili per la loro stazza, e i blue donkey, i pulmini bianchi e blu che sfrecciano per la città stipati all’inverosimile con carichi umani altrettanto improbabili.

Questi pulmini sono il mezzo di trasporto più utilizzato dalla popolazione. Sono delle specie di taxi collettivi che hanno di solito un equipaggio di due persone: l’autista (e su come si guida qui in Etiopia mi soffermerò un’altra volta…) e un “buttadentro” che normalmente viaggia con il busto fuori dal finestrino gridando la direzione verso cui è diretto il mezzo.

Non esistono fermate come per gli autobus, così quando i blue donkey sono costretti a rallentare oppure non sono pieni fino sopra al tetto di gente, passandogli a fianco si può sentire il buttadentro urlare nel traffico caotico della città “Bolebolebole!” (Bole è la zona dell’aeroporto), “Maganagnamaganagnamaganagna!” (Maganagna, una grande rotonda all’intersezione di importanti strade che si avvicina moltissimo alla mia rappresentazione mentale di un girone infernale dantesco: gente che aspetta i bus che stazionano lì vicino, gente che dorme in mezzo allo spartitraffico, gente che vende sui marciapiedi ogni sorta di merce dai calzini alle brioche e caffè nei thermos, il tutto in mezzo ad un traffico spropositato ad ogni ora del giorno) e altri pittoreschi nomi della città. Si fermano, a bordo strada ma anche in mezzo, e ripartono dopo aver caricato i passeggeri, il tutto naturalmente senza considerare neppure l’idea di mettere una freccia per segnalare le loro intenzioni oppure di usare gli specchietti retrovisori per vedere se sopraggiunge qualche altra vettura…